Ciò che le aziende chiedono al loro enologo

...o aspirante tale.

Dopo esserci occupati della difficile e sfaccettata arte del trattare i giornalisti (o sedicenti tali), oggi affrontiamo una figura-chiave dell'azienda produttrice di vino.

L'enologo.
Ancora una volta, lo spunto ci viene da un editoriale, quello che compare sul n. di aprile della rivista L'Enologo, "dal 1893 la voce della categoria".

L'editoriale, a firma del presidente nazionale di Assoenologi Giancarlo Prevarin, prende le mosse da un aggiornamento di una loro vecchia (2004) ricerca su "Cosa chiedono le imprese agli enologi che intendono asumere?".

Ebbene, sei anni fa come oggi, la stragrande maggioranza delle aziende chiede una preparazione di base valida, solida e adeguata ai tempi.

Che si tratti del vigneto, della cantina, del laboratorio enologico o dell'ufficio, così come del magazzino, un giovane enologo deve sempre sapere dove mettere le mani.

Non solo: il 35% dei produttori (o amministratori) intervistati ritiene determinante la conoscenza corretta di almeno una lingua (l'inglese, in genere), meglio se due (si prevede una crescita esponenziale di richieste di enologi sinofoni*), mentre il 60% esige che sappia usare il computer (nel 2004 era solo il 50%).
Ovviamente, se l'azienda che cerca l'enologo è di dimensioni medio-grandi, questo desiderio diventa un pre-requisito.

Ancora: come già nel 2004, il 10% delle imprese vorrebbe uno enologo specialista in particolari campi (quali, non è dato di sapere: chimica organica? viticoltura biodinamica? fisica dei flussi?). Tuttavia, in caso di precise esigenze, l'80% delle aziende intervistate ha affermato che non si rivolgerebbe ad un enologo, ma ad un professionista specializzato nel settore richiesto.

"Per contro - scrive Prevarin - in questo contesto, così come evidenziato sei anni fa, va detto che molti lamentano che spesso gli enologi sono plasmati sulla base delle discipline di insegnamento di cui l'università dispone. Così in alcuni casi l'enologo è un microbiologo, in altri un viticolo, un altri un chimico, mentre la richiesta è di un professionista che abbia una preparazione a 360 gradi sulle problematiche di base".

L'articolo prosegue con i dati sull'occupazione.
I quali, a dispetto della moda del vino tuttora imperante, non sono esaltanti. Nel 1980 gli enotecnici disoccupati (come allora ancora si chiamavano quanti uscivano dalle scuole specializzate) erano l'1% al Nord, e il 4% al Sud.

Oggi sono il 7% al Nord e il 13% al Sud (nel 2004 erano rispettivamente il 6% e il 9%).

Conclusione? Secondo Prevarin, "è assurdo che in Italia ci siano circa 20 Università con attivato il corso di laurea in viticoltura e enologia, perchè è inutile avere centri di formazione con insegnanti e strutture inadeguate".

Mi permetto di aggiungere: non c'è dubbio che sono gli Istituti Superiori di Enologia (Alba, Conegliano, San Michele all'Adige e simili) quelli più deputati a fornire quella preparazione teorico e (soprattutto) pratica che costituiscono le basi su cui cominciare a costruire la propria formazione. Le Università di enologia possono essere solo un (talvolta ricco) completamento e/o arricchimento di questi studi, non un'alternativa.

Allo stesso tempo, è addirittura pericoloso considerarsi arrivati una volta diplomati/laureati e (perfino) assunti: quella dell'enologo oggi è una delle professioni più complesse e ad alto tasso di innnovazione che esista.

Non si può, non si deve mai smettere di studiare e aggiornarsi.

E viaggiare. E assaggiare ( i vini degli altri).

Infine: è opportuno incoraggiare tanti giovani a intraprendere una professione per la quale gli spazi nel mercato dell'occupazione si riducono ogni anno di più?

*sinofoni: che parlano cinese.